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Le immagini di Abu Ghraib che hanno fatto il giro del mondo e la celebre foto che ritrae gli scontri del G8 di Genova pochi istanti prima della morte di Carlo Giuliani. Due casi che mettono in luce la capacità definitoria delle immagini nel racconto politico e la loro forza nell’orientare il giudizio dell’opinione pubblica

Un’immagine vale più di mille battute, potremmo dire parafrasando l’antico adagio. Sul ruolo delle fotografie nella definizione degli eventi è superfluo soffermarsi lungamente.

Però ci sembra utile ricordare due esempi recenti, che mettono in luce la capacità e la potenza definitoria delle immagini nel racconto politico.

Il primo relativo è alle pubblicazione delle foto di Abu Ghraib e al loro effetto sulla percezione della presenza statunitense in Iraq. Come fa notare Mestrovic: una serie di “fotografie che ritraggono solo sei militari modificano la percezione di un contingente di 138,089 uomini e donne e dell’intera nazione americana” (Mestrovic 2006).

Il G8 di Genova. Il secondo riferimento è relativo al caso di una recente icona informativa, un celebre prodotto del fotogiornalismo: “A death in Genoa”. di Dylan Martinez.

L’immagine ritrae la scena degli scontri durante il G8 di Genova pochi secondi prima dell’omicidio di Carlo Giuliani. Il giovane è ripreso mentre solleva un estintore, con l’apparente intenzione di scagliarlo contro un veicolo dei Carabinieri.

Scelta dai media come metonimia per il movimento antiglobalizzazione, quell’immagine ha avuto la funzione di dirigere lo sguardo pubblico e le interpretazioni verso un significato costruito, piuttosto che verso la descrizione degli eventi (Perlmutter e Wagner, 2004).

In questo caso il messaggio è la marginalizzazione della protesta realizzata attraverso la comunicazione della violenza dei manifestanti come messaggio principale. Detto in altre parole, attraverso quell’immagine il significato costruttivo, politico, della protesta passa in secondo piano rispetto alla narrazione della violenza.