Esordisce in serie A il videomessaggio su internet. Per la prima volta un leader di primo piano affida alla Rete il suo pensiero su una questione chiave per la politica italiana.
La pubblicazione ha tenuto col fiato sospeso per tutta la giornata l’Italia che si interessa alla politica (mentre l’altra Italia andava in giro, si divertiva e aspettava le partite). Preannunciata per la tarda mattinata è stata differita progressivamente e pubblicata sono nel tardo pomeriggio.
L’analisi del messaggio di Gianfranco Fini ha impegnato i commentatori più autorevoli della politica italiana. Tre elementi, fra i tanti, sembrano i più interessanti.
Sincero. Il discorso di Fini sembra sincero: lo scrivono Flores D’Arcais e Travaglio su Il Fatto, Ugo Magri su La Stampa e lo riconosce anche un avversario politico, Veltroni, intervistato da Lucia Annunziata su Rai Tre. Il tono e le argomentazioni usate da Fini danno al messaggio un’impressione di credibilità. Fini si concentra sulla volontà di fare chiarezza sulle accuse e riesce in questo intento.
Tardivo. Lo pensano sia Folli (Il Sole 24Ore) sia Scalfari (La Repubblica). Le parole di Fini arrivano troppo tardi nel tempo, a mesi dallo scoppio della polemica, dopo decine di articoli avvelenati sull’argomento. La scelta del timing ne depotenzia quindi la forza. Se era tutto così semplice perché Fini ha aspettato due mesi per chiarire una volta per tutte i fatti?
Dimesso. Fini arriva all’appuntamento con la verità “con le ruote sgonfie”, come afferma Mario Sechi su Il Tempo. Se il giudizio non è privo di intenti polemici, tuttavia bisogna riconoscere che il tono mellifluo, le frequenti pause per deglutire, la compostezza del corpo fanno apparire Fini fiacco nel momento in cui declama la propria arringa difensiva a Rete unificata.
Altri due elementi, che non sono stati sottolineati, meritano attenzione.
Fini fa “catenaccio”. Si difende su tutti i punti ma fallisce nell’obiettivo di dipingere con chiarezza l’immagine del proprio avversario. I suoi non sono attacchi ma stilettate. Come l’accusa – generica – relativa al possesso di società off-shore:
«Personalmente non ho né danaro, né barche, né ville intestate a società off-shore, a differenza di altri che hanno usato e usano queste società per meglio tutelare i loro patrimoni familiari o aziendali e per pagare meno tasse».
L’allusione, sottile, per addetti ai lavori – in sintesi, politichese nel suo senso più letterale – è a Berlusconi (e famiglia) che, secondo quanto riporta Dagospia possiederebbe “almeno sei ville […] tra Antigua e le Bermuda, intestate a società off shore” oltre a “una barca di 48 metri […] valore all’incirca 13 milioni di euro”.
Fini sceglie una strategia razionale. Lo dimostra la struttura del discorso che dà la prevalenza alla difesa e al racconto dei fatti. Fini vuole spiegare, non convincere, lo testimonia lo sguardo, che non è rivolto verso la camera – e dunque all’ascoltatore – ma si dirige verso un punto indefinito dietro l’operatore, dando a chi parla un’immagine di alterigia (rafforzata peraltro dalla posizione con la schiena affondata sulla poltrona).
Lo testimonia perfino l’inquadratura scelta per il discorso, che “taglia” le mani: Fini è un volto parlante, è un politico tutta-testa, non un corpo che si agita. In tal senso è interessante il confronto con Grillo, comico-politico che si muove, guarda in camera, suda, si arrabbia, si emoziona e suscita emozioni.
In sintesi il discorso di Fini, nonostante appaia sincero, riesce a convincere solo chi era già persuaso della sua “innocenza”: i suoi fedelissimi e i simpatizzanti del centrosinistra (ovvero gli antipatizzanti di Berlusconi). Non riesce invece a instillare dubbi in quanti nutrano nei suoi confronti la diffidenza per un alleato che viene ormai considerato un “traditore”.
Leggi il testo del messaggio sul sito di Generazione Italia
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