Fini: un linguaggio politico dal tono esoterico

da Il Riformista, 7 settembre 2010

“Politica”. È questa la parola che ricorre più spesso nel discorso di Fini a Mirabello, un discorso che arriva a chiudere una telenovela politica lunga un’estate e ad aprire una nuova fase per il centrodestra italiano.

Quello di Fini è un discorso che lascia poco spazio alla retorica e alla ricerca dell’applauso facile ma che è invece profondamente politico e razionale.

È politico perché la sua forza non sta nella capacità di infiammare gli animi ma in quella di riproporre Fini come leader di una parte della destra che – con l’appiattimento dei colonnelli sulle posizioni filo-berlusconiane – sembrava aver perso ogni punto di riferimento nazionale.

Non a caso sono i punti in cui Fini si distacca più profondamente da Berlusconi (e dalla Lega) quelli che suscitano maggiore entusiasmo fra il pubblico. È nella prima parte del discorso, con la rivendicazione di un garantismo che non significhi impunità, con la critica alla politica dei tagli lineari nella scuola, con la distinzione fra lotta all’immigrazione clandestina e “integrazione dell’immigrato onesto”.

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Obama cerca voti come i venditori di giochi

Il Riformista, 24 agosto 2010

Parte la campagna Commitment di Obama, in vista del voto per il Senato del prossimo novembre. Si tratta della riproposizione di una strategia elettorale che giocò un ruolo importante nella vittoria del 2008. Il meccanismo su cui si basa è semplice: fare a quante più persone possibile una semplice domanda: “Ti impegni a votare nelle elezioni del 2010?”.

I volontari democratici stanno già percorrendo le strade delle proprie città, fermando i passanti e bussando alle porte, ripetendo la stessa, semplice domanda. Via telefono o via e-mail (è stata allestita una pagina dedicata sul sito my.barackobama.com) il quesito raggiungerà milioni di americani.

Perché un simile dispendio di energie che potrebbero essere impiegate per evangelizzare i conservatori e motivare gli indecisi?

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Fini ha commesso lo stesso errore linguistico di Nixon

da Il Riformista, 5 agosto 2010

“Non siamo traditori”. Con questa frase, riportata da tutti i media, Fini ha commentato la linea del proprio gruppo parlamentare sul voto di sfiducia nei confronti del sottosegretario Caliendo.

Il leader di Futuro e Libertà dimostra così di avere appreso solo in parte la lezione di Berlusconi sulla comunicazione e di maneggiare maldestramente alcuni strumenti cruciali per la costruzione del consenso.

Come la negazione. La mente umana, infatti, ragiona solo in termini positivi: nominare il termine “traditore”, sebbene per respingerlo, evoca un “frame”, un quadro di riferimento, un universo di significato, ci fa venire in mente un patto e qualcuno che lo viola, una persona sincera e uno spergiuro, un buono e un cattivo, quest’ultimo, interpretato – nel caso in oggetto – da Fini.

Come racconta George Lakoff in un testo classico del linguaggio politico, Richard Nixon lo imparò a proprie spese. Durante lo scandalo Watergate, per far fronte alle continue richieste di dimissioni, il presidente americano rilasciò una dichiarazione pubblica in televisione nella quale affermava “non sono un imbroglione”. Come risultato tutti pensarono che era un imbroglione.

La dichiarazione di Fini ottiene lo stesso risultato e se – presa in sé – è ben poca cosa, priva di conseguenze gravi, tuttavia risulta illuminante perché getta una nuova luce su due elementi.

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Sulla polemica con il Pd

Ha suscitato un dibattito acceso e vivace l’articolo sul Qr code pubblicato sul Riformista: mentre tanti mi hanno testimoniato condivisione e consonanza di opinioni, alcune persone che lavorano nel Pd hanno mostrato dubbi e osservazioni critiche.

Mi sembra giusto soffermarmi sulle opinioni divergenti piuttosto che sugli elogi e quindi ci tengo a precisare alcuni punti cruciali. Continua a leggere…


Nota metodologica per comunicatori

Per una fortunata coincidenza mi sono capitate sotto gli occhi queste righe, tratte dall’ultimo libro di Jacques Séguéla, pubblicitario francese di successo, celebre per aver curato la campagna elettorale che portò Mitterand all’Eliseo nel 1981. Ecco cosa scrive:

«Un comunicatore (…) deve guardarsi bene dal fare politica. Ogni eccesso di militanza lo rovinerà. Il suo interlocutore si aspetta da lui non la voce del consenso, ma quella dello scetticismo, dell’opposizione, in una parola dell’empatia nel senso psicologico del termine, vale a dire una totale neutralità di ascolto e di analisi.

La sua forza sta nella sua professionalità, non deve mai lasciare che si tinga di favoritismo. Non è un gioco facile: il potere rende ciechi e la corte gli fa la corte. Al comunicatore spetta fare il suo mestiere, che non sta nel lusingare, ma nel rivelare le debolezze, se non addirittura gli errori del suo candidato. Non è il ruolo più bello».

Mi sembrano parole da tenere a mente.


La comunicazione del Pd, aristocratica, “presuntuosa” e ideologica

da Il Riformista, 29 luglio 2009

Da qualche giorno campeggia sui muri di Roma un nuovo manifesto del Partito Democratico, non l’avevo veramente notato fino a quando un amico* non me ne ha parlato, per criticarlo.

La scritta “La manovra è sbagliata” si staglia in bianco su sfondo arancione, mentre una grande macchia (o quella che mi sembrava una macchia) occupa la parte centrale del cartellone.

Vengo informato che si tratta del simbolo che rappresenta il QR Code, che sul sito del Pd viene così presentato: “non si tratta di un cambio di simbolo del Pd né di un errore di stampa, ma del QR Code, l’erede del codice a barre”.

“Il codice QR – prosegue la nota – può essere letto da un qualunque cellulare collegato a Internet, e permette di approfondire online l’argomento trattato a partire da un manifesto, volantino, inserzione e da tutte le forme di comunicazione tradizionale”. In pratica l’utente punta il cellulare verso il manifesto, si collega alla Rete e può così ottenere automaticamente maggiori informazioni.

Il manifesto con il QR code è un esempio del modello di comunicazione del Pd: aristocratico, presuntuoso e ideologico. Se le parole possono sembrare forti è bene capire che non sottintendono un giudizio di valore ma una constatazione di alcuni elementi. Vediamo quali.  Continua a leggere…


Vendola, gli scenari possibili per il Capitan Futuro di Terlizzi

da Il Riformista, 27 luglio 2010

L’autocandidatura di Vendola suscita in ugual misura entusiasmi e mal di pancia nel centrosinistra. Nell’eventualità, nemmeno troppo remota, che il Capitan Futuro di Terlizzi riesca a vincere le primarie di coalizione, il risultato delle elezioni politiche è assolutamente aperto, al netto della nascita di nuovi soggetti politici e di rimescolamenti vari. A fare la differenza sarà il suo atteggiamento nei prossimi (tre) anni e la strategia scelta per la campagna elettorale.

Le campagne, nella società dei media, iniziano alla chiusura delle urne. Sarà bene che Vendola lo tenga a mente e faccia seguire a quest’annuncio una serie di mosse che contribuiscano a creare attesa ed entusiasmo intorno alla sua figura. Il che, considerato lo scenario attuale del centrosinistra, non dovrebbe essere troppo difficile.

Il leader di Sinistra e libertà dovrà inoltre essere in grado di uscire dalla dimensione localistica ed ideologica nella quale lo conosce l’elettore medio italiano. Dovrà essere capace di comunicare i propri successi amministrativi, per affermare l’immagine di un buon governatore accanto a quella del paladino della sinistra e della libertà.

Se pensasse di concentrarsi su questioni interne alla politica – per addetti ai lavori – sarebbe destinato alla sconfitta, così come se intendesse costruire la propria figura su una contrapposizione “ideologica” al berlusconismo.

Il momento cruciale, il redde rationem di questo lavoro, sarà la campagna. Dovrà essere organizzata “strategicamente” per resistere alle contromosse di una coalizione avversaria capace di distruggere e ridimensionare, nel corso degli anni, candidati ben più titolati. Il fatto che Vendola sia considerato un “buon comunicatore” non deve farlo riposare sugli allori. Veltroni docet.


Il voto dei cattolici praticanti

Nella cosiddetta “Seconda Repubblica” i cattolici praticanti italiani hanno sempre avuto un orientamento politico sbilanciato verso il centrodestra rispetto all’elettorato complessivo.

In occasione delle elezioni Politiche del 2008 si è avuto un ulteriore spostamento del baricentro politico dei praticanti in direzione del polo destro.

Da allora il ritardo del centrosinistra è rimasto attorno ai 15 punti percentuali, sia sul piano nazionale che nell’aggregato delle 13 regioni dove si sono tenute le elezioni regionali quest’anno. Andamento che ha trovato una riconferma alle elezioni del 28 e 29 marzo.

Sono i risultati di un’analisi di SWG presentata nel corso del seminario “I Cattolici e il voto nelle elezioni regionali” organizzato da “Cristiano Sociali News”.

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Perché Di Pietro sale e il Pd scende?

L’Italia dei valori di Antonio Di Pietro ha triplicato in un pochi anni i propri consensi. Dal 2 per cento delle regionali del 2004 al 4 delle politiche 2008 all’8 delle ultime europee.

Il Partito Democratico, invece, lo sappiamo, arranca a tutti i livelli, sia a quello nazionale sia a quello locale, che tradizionalmente costituiva il baluardo del centrosinistra.

La ragione di questa diverso risultato elettorale può essere spiegata (anche) con un diverso comportamento comunicativo.

La risposta alla manovra finanziaria è un esempio eloquente.

Il Partito Democratico si affida prima a una conferenza stampa con il vicesegretario Enrico Letta, poi al commento di Bersani.

Il Pd si concentra sulla critica alla manovra di Berlusconi e solo in seconda battuta propone i propri punti.

È evidente l’utilizzo di termini tecnici, poco comprensibili per il cittadino medio: “allentamento del patto di stabilità”, “modulo di riforma fiscale”, “capitali scudati” sono parole e concetti ostici per milioni di cittadini italiani.

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Immagine

Le immagini di Abu Ghraib che hanno fatto il giro del mondo e la celebre foto che ritrae gli scontri del G8 di Genova pochi istanti prima della morte di Carlo Giuliani. Due casi che mettono in luce la capacità definitoria delle immagini nel racconto politico e la loro forza nell’orientare il giudizio dell’opinione pubblica

Un’immagine vale più di mille battute, potremmo dire parafrasando l’antico adagio. Sul ruolo delle fotografie nella definizione degli eventi è superfluo soffermarsi lungamente.

Però ci sembra utile ricordare due esempi recenti, che mettono in luce la capacità e la potenza definitoria delle immagini nel racconto politico.

Il primo relativo è alle pubblicazione delle foto di Abu Ghraib e al loro effetto sulla percezione della presenza statunitense in Iraq. Come fa notare Mestrovic: una serie di “fotografie che ritraggono solo sei militari modificano la percezione di un contingente di 138,089 uomini e donne e dell’intera nazione americana” (Mestrovic 2006).

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